Ennesima batosta giudiziaria per la famiglia di Johanna Boni, la 27enne italo-maltese deceduta il 5 gennaio 2016 a Naxxar dopo essere stata travolta da un camion mentre si trovava ferma a uno stop in sella alla sua inseparabile motocicletta.
Una ferita impossibile da rimarginare per i genitori, acuita nel tempo da vicende giudiziarie che hanno messo a dura prova il percorso verso la verità e la giustizia. Prima l’assoluzione dell’autista, contestata dal procuratore generale e ribaltata in appello con la condanna di Cauchi, poi l’ennesimo dolore: quello legato al modo in cui Johanna è stata sepolta.
A scoprirlo sono stati proprio i genitori, Giuseppe e Josephine, nel 2019, quando — riaprendo la tomba per esaudire il desiderio del nonno di riposare per sempre accanto all’amata nipote — si trovarono testimoni inaspettati del corpo della figlia rinchiuso in un comune sacco di plastica per cadaveri, ignorando le richieste di vestirla con un ultimo regalo: un abito rosso, la collana ed un paio di scarpe argento che l’avrebbero dovuta accompagnare durante il suo ultimo viaggio.
Per questo motivo, la famiglia aveva avviato una causa portando a giudizio l’amministratore delegato dell’ospedale Mater Dei, il ministro della Sanità, l’Avvocatura di Stato e l’impresaria delle pompe funebri Anna Falzon, accusandoli di vilipendio di cadavere. Fronte sul quale è arrivata ora una nuova delusione, dopo che la Corte d’Appello ha respinto il ricorso.
Secondo i giudici, il fatto che il corpo della giovane non sia stato vestito con gli indumenti richiesti non costituisce una mancanza di rispetto o una violazione dei diritti fondamentali, sottolineando che le erano stati garantiti funerali e sepoltura in linea con la sua religione. La decisione di riporla in un sacco per cadaveri sarebbe stata conforme alla normativa maltese e giustificata dalle condizioni del corpo, che — secondo la difesa — non ne avrebbero consentito la vestizione.
Nel motivare il rigetto del ricorso, la Corte ha inoltre chiarito che l’onere della prova spettava alla famiglia: dimostrare cioè, con elementi concreti, che il corpo fosse effettivamente in condizioni di essere vestito. La procedura interna del Mater Dei prevede che, in casi simili, l’informazione venga trasmessa formalmente ai familiari tramite il direttore delle pompe funebri. Tuttavia, nel caso in esame — si legge nella sentenza — non è emerso alcun documento né comunicazione ufficiale che provi l’avvenuta informazione, né elementi che indichino una violazione intenzionale della procedura. Per i giudici, la condotta dei necrofori non può essere quindi ritenuta dolosa, ma le motivazioni della mancata comunicazione alla famiglia restano di fatto non chiarite.
«Le bugie hanno vinto», è il commento amaro di mamma Josephine, rilasciato a caldo al Corriere di Malta subito dopo la sentenza. La famiglia Boni, infatti, da sempre sostiene con fermezza, con tanto di fotografie alla mano, che il corpo della figlia fosse nelle condizioni di poter essere vestito.
«Abbiamo visto e abbracciato Johanna due volte – racconta la madre – il giorno in cui è morta, con ancora addosso l’abbigliamento da motociclista, e quello seguente sul tavolo dell’obitorio, prima dell’autopsia». «Le ho comprato un vestito in quei giorni, le scarpe e persino la biancheria intima, non solo perché era nostra figlia, ma anche perché il suo corpo era integro. Addirittura ci dissero che il “vestito le stava benissimo”. Parole – sostengono – confermate durante l’udienza del 6 ottobre 2023, quando lo zio di Johanna, David Mifsud, testimoniò di averle sentite pronunciare direttamente da Anna Falzon nel giorno del funerale della nipote.
«Sappiamo che questa sentenza è una menzogna, e ora vogliamo che quelle fotografie che lo dimostrano vengano utilizzate come prova», lo sfogo di Josephine Boni riferendosi alle immagini scattate al corpo di Johanna, che il Corriere di Malta ha potuto visionare per dovere di cronaca, ma che non sono mai entrate a far parte del fascicolo processuale. Una scelta che — spiegano i familiari — rientrava in una precisa strategia adottata all’epoca dal legali e maggiormente concentrata sulla “sensibilità” del trattamento disposto nei confronti della salma, ma che oggi, alla luce della sentenza pronunciata dalla Corte d’Appello, assume un peso diverso. Proprio nel verdetto, infatti, si legge che l’accusa non avrebbe fornito elementi in grado di controbilanciare la tesi sostenuta dalla difesa, secondo cui il corpo della giovane non era in condizioni di poter essere vestito.
Ora, quella sentenza, i familiari di Johanna Boni, con il supporto dei loro legali, stanno valutando di sottoporla alla Corte europea dei diritti dell’uomo, insieme alle fotografie del corpo della figlia che potrebbero portare il caso ad essere ridiscusso.
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