L’articolo e le fotografie sono ad opera di Andrea Baldinotti. Storico dell’arte, Baldinotti ha studiato all’Università di Firenze con Carlo Del Bravo. Ha approfondito, in numerose occasioni, temi legati all’arte italiana del Quattro Cinque e Seicento, privilegiandone soprattutto il versante iconografico e iconologico; si è rivolto inoltre allo studio di molteplici aspetti della pittura italiana dell’Ottocento e del Novecento, collaborando alla stesura di cataloghi d’esposizioni nazionali e estere.
Il grido d’allarme lanciato nel luglio scorso da Keith Sciberras in merito alla possibilità che l’ampliamento del Museo della Concattedrale di Malta, situato nelle immediate adiacenze dell’Oratorio di san Giovanni, possa oscurare col suo elevarsi una delle grandi finestre che permette alla luce di bagnare dall’alto della parete ovest il grande telero con la Decollazione del Battista dipinta nel 1608 da Michelangelo Merisi da Caravaggio per quell’ambiente, torna a porre l’accento su una delle problematiche più affascinanti e complesse della civiltà artistica del Seicento: quella che presiede all’inscindibile rapporto fra luce e opera d’arte.
È indubbio infatti, e gli studi dell’ultimo mezzo secolo dedicati al capolavoro caravaggesco stanno lì a dimostrarlo, che il Merisi nell’assolvere la sua impegnativa commissione in vista della propria ammissione ufficiale nell’ordine dei Cavalieri di Malta, avvenuta come sappiamo nel luglio di quello stesso 1.608 ad un anno distanza esatto dal suo arrivo sull’isola, abbia rigorosamente calibrato in termini prospettici la sua vasta composizione tanto in relazione alle reali dimensioni dell’Oratorio quanto alla luce che originariamente filtrava da un’alta finestra, posta anch’essa sulla parete ovest e oggi non più esistente.
Prima d’ogni altra cosa bisogna ricordare infatti che, sullo scorcio del primo decennio del Seicento, quando Caravaggio v’installò la Decollazione, la fonte luminosa non era la stessa di quella attuale. Questa era stata mutata col rimaneggiamento dell’ambiente avvenuto, ad opera di Mattia Preti, fra il 1685 e il 1695; rimaneggiamento che, oltre a riguardare una nuova decorazione pittorica destinata alla volta, comportò anche, in virtù dell’apertura di una nuova sequenza di finestre, poste più in alto rispetto a quella poi scomparsa già utilizzata dal Caravaggio, un innalzamento di circa un metro del dipinto, per non turbare – Mattia Preti ne era perfettamente cosciente – l’intimo connubio che il Merisi aveva caparbiamente perseguito fra la sorgente luminosa e la scena che da essa traeva vita e sostanza simbolica.
Nessuno – e ha fatto bene Keith Sciberras a ricordarlo anche sulla scorta delle ricerche di un altro insigne studioso caravaggesco, Bert Treffers – potrebbe infatti comprendere appieno il profondo significato storico-spirituale della Decollazione senza tener conto dell’inscindibile legame che la luce era stata chiamata ad instaurare col dipinto: il più grande e l’unico firmato, come sappiamo, fra quelli lasciatici dall’artista lombardo.
Una luce che spiove dall’alto, a sinistra, ad illuminare lo spoglio cortile interno d’un carcere dove l’atto finale della vita del precursore di Cristo s’è consumato in pochi attimi sotto i nostri occhi, seguendo la consuetudine d’un rituale spietato e cruento. Giovanni è stato sciolto dalle corde che lo legavano alla parete di fondo, quella dalla quale s’affacciano oltre le sbarre della loro cella le povere sagome di due detenuti che contemplano sgomenti il materializzarsi del loro possibile destino, per essere portato sul proscenio dove il carnefice prima gli ha inflitto con la spada la profonda mortale ferita al collo ed ora s’accinge a recidere col suo coltello, chiamato per questo Misericordia, gli ultimi legamenti che ancora ne uniscono la testa al tronco steso nella polvere.
Attorno a loro i pochi altri attori dell’evento fissati in gesti muti ed esemplari: il capo carceriere che impone al carnefice di sistemare, una volta compiuto il suo lavoro, la testa sul bacile; bacile dai riflessi argentati messogli innanzi da una giovane riluttante fanciulla. Accanto a lei una vecchia, in tutto simile, nel suo atto di portarsi le mani al volto in segno di desolata pietà, all’anziana popolana che s’intravede fra gli astanti del Seppellimento di Santa Lucia che il Caravaggio avrebbe dipinto l’anno successivo nel corso del suo soggiorno a Siracusa.
Il Merisi aveva immaginato la sua scena come una vera e propria sacra rappresentazione in cui la profondità dello scabro palcoscenico dovesse idealmente e illusivamente proseguire lo spazio reale dell’oratorio. C’era dunque la volontà di far percepire l’evento narrato dai vangeli come qualcosa che si rivelasse al pubblico esattamente in quell’istante e in quel luogo, finendo così per appartenere contemporaneamente ai personaggi sacri e al pubblico dei suoi testimoni d’ogni tempo posti al di qua della tela.
E non a caso s’è inteso parlare di proscenio, di profondità spaziale, di sacra rappresentazione. L’effetto che ancor oggi si percepisce davanti alla Decollazione del Battista è quello di chi assiste ad un’autentica scena di teatro in cui la luce fissata sul dipinto, quella stessa luce che il Caravaggio aveva fatto coincidere col percorso dell’illuminazione naturale filtrante dalla finestra, proprio come in una ben concertata azione drammaturgica, viene a porsi quale indispensabile elemento rivelatore.
Della luce concepita quale metafora della Grazia divina che irrompe nella parabola della vita umana lacerando le tenebre del peccato, Caravaggio, nel corso del primo decennio del Seicento, aveva fatto il manifesto della propria arte, facendovi coincidere il repentino quanto violento mutare della sua cifra stilistica. Non è qui il luogo di ripercorrere anche solo brevemente le ragioni e le circostanze che portarono a quella scelta. Mancherebbero il tempo e lo spazio.
Preme invece ricordare, all’interno di questo breve intervento, come nella memoria di uno dei suoi più importanti biografi, Giovan Pietro Bellori, ancora nel 1672, quella svolta fosse letta come un evento che nascondesse al suo interno i germi d’una appassionata meditazione sui meccanismi propri della messa in scena teatrale. «Cominciò Caravaggio a ingagliardire la sua maniera, spogliando modelli e alzando lumi»: dove l’atto di “alzare i lumi”, chiamato a giustificare l’utilizzo d’una fonte di luce diretta spiovente dall’alto sui suoi spogli palcoscenici, richiama alla memoria, come ha ricordato ancora recentemente Gianni Papi, un caratteristico procedimento del teatro seicentesco: l’issare i grandi lampadari di sala per illuminare l’ambiente destinato ad accogliere il pubblico.
Sarà questa la ragione che indurrà Caravaggio a dare per la prima volta ad un suo sfondo architettonico un’ampiezza così inusitata: cosa del tutto nuova nella tradizione pittorica italiana del tempo. Uno sfondo in cui il vuoto domina angosciosamente, contribuendo secondo Mina Gregori «a dare evidenza, per contrasto, al gruppo essenziale, limitato alle figure protagoniste secondo la prescrizione dei classicisti per lo stile tragico che richiedeva pochi attori, come il Caravaggio sapeva bene, sull’esempio della tragedia antica». Un palcoscenico spoglio, dunque, per pochi attori sui quali la luce si riverbera inquieta.
Mi si consenta, in proposito, un piccolo ricordo personale. Fra la fine del 1998 e l’inizio del 1999 ho avuto modo d’osservare da vicino la Decollazione in occasione del suo restauro condotto a Firenze dai tecnici dell’Opificio delle Pietre Dure in stretta collaborazione con le autorità e i colleghi maltesi. Si trattò allora, come molti ricorderanno, di risarcire il danno che era stato inferto da un atto vandalico alla parte bassa della tela: un lungo taglio parallelo alla base del quadro compiuto probabilmente in funzione di un maldestro tentativo di furto. L’Istituto fiorentino non si limitò, allora, a restituire all’opera la sua integrità fisica, ma ne effettuò una nuova indispensabile foderatura, ne rinnovò il tensionamento preoccupandosi, in prospettiva futura, di rendere accessibile il dipinto, una volta ricollocato in loco, anche dalla parte tergale al fine di favorirne la corretta e periodica manutenzione.
L’intervento venne completato anche da un’attenta ripulitura che asportò dalla superficie del capolavoro caravaggesco i materiali estranei che vi si erano accumulati nel corso del tempo e che il precedente restauro degli anni Cinquanta aveva scelto di non rimuovere. Il dipinto recuperò così quella profondità luminosa che in parte era stata offuscata. I conci di pietra del portale del carcere riacquistarono una più precisa definizione, la luce assunse diversa consistenza sul corpo livido di San Giovanni nonché sulle membra del carnefice. Il gran teatro del Caravaggio tornò dunque a stringere il suo dramma silenzioso in un alone di luce soffocata, così come l’artista l’aveva concepito quasi quattro secoli prima.
Luce divina chiamata a sancire la sacralità del martirio del santo, e insieme la certezza di una volontà d’espiazione e di redenzione platealmente esibite da parte dell’artista giunto a Malta ancora segnato dall’assassinio commesso a Roma, nella persona di Ranuccio Tomassoni, nel maggio del 1606 e che ora, grazie all’intercessione del gran maestro dei Cavalieri di Malta Alof de Wignacourt e dei suoi emissari inviati, in qualità d’intermediari, presso la corte pontificia, vedeva profilarsi all’orizzonte la possibilità di ricevere la grazia papale contestualmente alla remissione della pena capitale comminatagli per il suo delitto.
Sappiamo come andarono le cose. Caravaggio, a seguito di gravi circostanze ancora non del tutto chiarite, incorse nelle maglie della giustizia maltese. Gettato in carcere, riuscì a fuggire in virtù della complicità di qualche membro influente dei Cavalieri e a rifugiarsi in Sicilia intorno al mese di ottobre del 1608. Due mesi più tardi, nello stesso ambiente per il quale egli aveva dipinto la Decollazione, sarebbe stata solennemente ratificata la sua espulsione dall’Ordine.
Si può dunque capire quali e quanti elementi di riflessione inneschi nell’esegesi del dipinto lo stretto connubio fra luce e spazio messo a punto dal Caravaggio nel suo dipinto e quale sfregio sarebbe apportato all’opera se si occultasse stolidamente la sorgente luminosa che di quel connubio costituisce il necessario veicolo.
A riscontro dell’importanza dell’appello lanciato da Sciberras per salvaguardare la “luce” del Caravaggio, voglio qui infine ricordare come anche sul versante italiano si sia incorsi, in tempi non troppo lontani, in un analogo errore di valutazione dettato, ad evidenza, dalla scarsa conoscenza del contesto in cui si trovava immerso un altro straordinario capolavoro della storia dell’arte: la Beata Ludovica Albertoni di Gian Lorenzo Bernini.
Il celebre scultore dette vita a quella stupefacente creazione marmorea in età già avanzata, intorno al 1665, per la chiesa di San Francesco a Ripa situata nel quartiere di Trastevere a Roma. Ebbene anche in quel caso, il gran regista del barocco romano, proprio come Caravaggio, aveva previsto una fonte di luce che provenisse da due finestrelle, invisibili allo spettatore, poste in alto sulle pareti interne del sacello che ospita il corpo d’abbagliante candore della santa, in atto di muoversi convulso sopra un grande drappo di diaspro rossastro.
La Beata Ludovica, ormai prossima alla morte, è in preda ad un’ultima sconvolgente estasi mistica: la testa sensualmente rovesciata all’indietro, le mani ripiegate contro il petto. Rudolf Wittkower, ancor oggi considerato il massimo conoscitore dell’opera berniniana, nella sua esemplare disamina dell’opera, ha indicato negli scritti dei mistici del tempo, come ad esempio quelli di Santa Teresa d’Avila – della quale Bernini ha lasciato, in tal senso, una paradigmatica rappresentazione, sempre a Roma, nella chiesa di Santa Maria della Vittoria – lo scandaglio migliore per penetrare il significato che l’artista aveva conferito al tema del rapimento spirituale, rivoluzionando dall’interno i canoni figurativi del pieno barocco.
L’estasi è descritta e narrata come qualcosa che trafigge il corpo e l’anima con pari violenza. In tutto simile all’abbraccio d’un amante: sensuale, avvolgente, capace in un attimo di accecare e annullare i sensi. Che travolge e abbandona; che si dissolve misteriosamente, così come misteriosamente s’è rivelato.
Al pari di un gran regista di teatro, Bernini crea per le sue sculture di santi in estasi il meccanismo di una sublime finzione: imbriglia la luce naturale proveniente dall’esterno e fa in modo che essa vada a colpire, attraverso una finestra o un corridoio opportunamente orientati e costruiti, la scultura, dando l’illusione, o forse sarebbe meglio dire, l’opportunità all’osservatore d’assistere e, al tempo stesso, comprendere, fino in fondo il senso di quel lacerante e meraviglioso incontro con Dio.
Molti anni fa, non si tenne dunque nel debito conto lo scenografico rapporto creato da Bernini fra la propria opera e la luce che doveva rivelarne l’intenso significato. La finestrella di destra della cappella fu infatti schermata, alterando così l’effetto finale della riverberazione luminosa naturale, trasformata dall’artista in metafora del divino, sulla figura della Beata francescana.
C’è comunque da augurarsi che quanto promesso oggi dalla Soprintendenza romana, al termine di una prima recente campagna di restauri che ha interessato la cappella che ospita il capolavoro del Bernini, possa presto trovare esiti concreti. Sono stati stanziati infatti, stando a quanto si legge sul sito del Ministero, 150.000 euro per ripristinare l’originale assetto voluto dall’artista e ridare al luogo la sua originale illuminazione eliminando la superfetazione esterna che ne ha svilito il primigenio apparato decorativo e il più autentico paradigma concettuale.
Speriamo che per il Caravaggio maltese non si commetta la stessa sconsiderata operazione. Un’operazione che equivarrebbe ad uno sfregio insanabile, perché i luoghi in cui le opere d’arte sono state collocate dal loro stesso artefice – luoghi concepiti e realizzati per conferire loro un’irrinunciabile e immodificabile suggestione emotiva – non possono e non devono subire alterazioni. La storia continuerebbe a non perdonarcelo.
(testo e foto: Andrea Baldinotti)