Malta è spesso vista dall’Italia come un «paradiso fiscale» dove eludere il fisco o evadere le tasse. Si tratta della realtà o di un pregiudizio? Per rispondere a questa domanda il Corriere di Malta ha fatto un’inchiesta in quattro puntate, di cui questa è la terza. Buona lettura.
Abbiamo iniziato a scoprire, con l’articolo del 13 giugno cosa c’è realmente dietro l’immagine che vorrebbe Malta preda del malaffare e quante opportunità di business questo Paese offra a imprenditori e investitori onesti, oltre che capaci. Abbiamo visto poi la reale convenienza fiscale e come le autorità italiane vedano benissimo nei conti degli italiani a Malta. Oggi vediamo consigli pratici e insidie da evitare per chi vuole investire qui.
“Questo Paese non è solo un ponte tra l’Europa e l’Africa, ma è anche membro del Commonwealth, oltre che protettorato americano. Mi sembra evidente che questo voglia dire valide opportunità per un’impresa che ha respiro internazionale e, soprattutto, ha interessi con il mondo anglosassone”.
A parlare così è Stanislao Filice, fino allo scorso anno vice presidente della Camera di commercio Italia-Malta, che si è trasferito da Napoli a Malta nel 2014 e, come commercialista assiste tanti italiani che hanno scelto di avviare qui una nuova attività o trasferire quella che avevano in Italia.
“Sicuramente, molti arrivano qui pensando di risparmiare sulle tasse e nessuno li ha messi in guardia sulle condizioni richieste per usufruirne, cioè mantenere qui i profitti. E allora c’è chi pensa di potere comunque aggirare queste norme con formule, per così dire, creative. Per esempio, aprire una holding, cioè una società la cui attività si limita al controllo dei pacchetti azionari di aziende che, invece, producono qualcosa, servizi o manufatti. L’illusione nasce dal meccanismo particolare del refund tax, che possiamo tradurre come rimborso fiscale, ma tecnicamente è considerato rifinanziamento dell’impresa. L’aliquota applicata alle società maltesi è del 35%. Ma se la società decide di reinvestire i profitti a Malta, allora gli vengono restituite quasi tutte le trattenute per cui l’aliquota effettiva che pagherà sarà del 5%“.
Da qui nasce l’idea di qualcuno che si crede furbo e pensa: adesso creo una holding nella quale metto la proprietà delle mie attività; e i soldi del refunding delle mie aziende li trasferisco nelle casse della holding. Così ufficialmente i soldi rimangono a Malta.
“Ma non funziona affatto così. Perché una holding non è un soggetto commerciale attivo” spiega Filice “tant’è che di solito non ha nemmeno la partita iva. Tutti i profitti della holding vengono considerati in capo al beneficiario finale della società. È come se fossero sul suo conto privato. E deve dichiararli al fisco italiano come reddito personale”.
Di insidie come questa ce ne sono più d’una. Per esempio, c’è l’obbligo di dichiarare in Italia anche i profitti che rimangono a Malta, nel quadro RW. Su quelli, il fisco italiano non gli chiederà neanche un centesimo, ma contribuiranno a fare cumulo nel caso che, per esempio, debba accedere ad agevolazioni italiane come bonus per la scuola dei figli o esenzione del ticket sanitario.
Ma qui torna l’argomento caldo dei rapporti con le autorità italiane: possibile che a Malta si venga osservati con la lente d’ingrandimento più di quando si lavora in Italia?
A rispondere è un esperto di reati finanziari internazionali, Ranieri Razzante, presidente dell’Aira, Associazione italiana responsabili antiriciclaggio.
“Malta è una sorvegliata speciale perché ha tardato a recepire la V direttiva europea in materia di antiriciclaggio. Ma un richiamo è arrivato di recente anche alla Spagna; e nei suoi confronti sta per aprirsi la procedura d’infrazione. In ogni caso, adesso Malta è formalmente compliant (conforme alle norme ndr.) con le regole Ue. Resta da vedere se alla correttezza formale corrisponde anche la pratica; ma questo vale un po’ per tutti i Paesi. Consideriamo che l’Italia ha la legge antiriciclaggio migliore del mondo. Eppure, abbiamo ogni anno 100 miliardi di riciclaggio!”.
Secondo Razzante, comunque, le norme comunitarie possono essere ignorate solo fino a un certo punto. Vengono definite dal Gafi, Gruppo azione finanziaria internazionale, un organismo sovranazionale creato dai Paesi del G8 nel e al quale aderisce anche Malta. Si tratta, quindi, di una struttura che supera anche i confini dell’Ue. E tra i fondatori ci fu anche il Regno Unito. Che, però, secondo diversi studi citati da Razzante è da anni una delle piazze principali per il riciclaggio. Cosa succederà adesso con la Brexit, che dovrebbe diventare effettiva entro il 1° gennaio prossimo?
“La Brexit potrà portare solo batoste” dice Razzante, che è anche docente di legislazione antiriciclaggio all’Università di Bologna “perché per continuare ad attrarre investimenti, trovandosi fuori dall’Unione europea, i britannici dovranno diventare quasi un paradiso fiscale. E hanno già fatto capire che andranno in questa direzione. Anche perché sarà più difficile per l’Ue controllare che rispettino gli impegni presi in ambito internazionale, cioè la trasparenza bancaria e lo scambio di informazioni. Mentre per Malta le autorità di controllo dell’Ue possono intervenire in maniera più rapida e controllare senza tanti filtri”.
Quindi, Malta potrà scrollarsi di dosso questa reputazione di isola dei pirati?
Sicuramente, il lavoro fatto nel corso degli ultimi 20 anni l’ha trasformata, sia dal punto di vista economico che sotto l’aspetto della cultura d’impresa. Se prosegue in questa direzione, e riesce a risolvere i problemi che la tengono ancora alla ribalta delle cronache giudiziarie internazionali, potrà essere davvero un concorrente temibile per gli investimenti. Non più per una supposta indulgenza nei confronti di imprenditori senza scrupoli ma, piuttosto, per la snellezza burocratica e le relazioni internazionali.
“Il problema che abbiamo in Italia è sicuramente una burocrazia che spesso ostacola le attività d’impresa” è l’opinione di Stanislao Filice “e soprattutto una amministrazione della giustizia estremamente lenta. Di contro, va detto, la nostra è una giurisprudenza matura, che prevede corpi e anticorpi. Quella maltese è semplice (quindi più efficace) ma carente. E, soprattutto, mette insieme due diversi sistemi giuridici. Essendo di ispirazione britannica, ci si aspetterebbe che fosse sul modello della common law. Ma questo riguarda solo la materia penale, mentre il diritto civile segue il modello civil law di origine napoleonica. La materia commerciale, invece, ricalca il modello anglosassone, che è common law, e si interseca con il civile. È evidente che, nonostante i tempi per arrivare alle sentenze siano decisamente inferiori alla media italiana, non c’è proprio il massimo della chiarezza normativa”.
La prossima puntata dell’inchiesta sarà pubblicata sabato 27 giugno